Lo afferma Cass.civ. sez. II ord. 21 maggio 2020 n. 9380, che ribadisce un consolidato orientamento in tema di beni comuni – ossia la necessità di un evidente interversione del possesso da parte del singolo – posto che il mero utilizzo, in situazioni di contitolarità, non è di per sè requisito dirimente ai fini dell’animus.
La Corte evidenzia come il lastrico solare, ai sensi dell’art. 1126 c.c., possa essere di proprietà esclusiva, circostanza che dunque ne legittima anche l’usucapione da parte del singolo che lo utilizzi in via esclusiva, rendendo evidente tale sua volontà agli altri condomini, per il periodo di tempo previsto dalla legge.
“La Corte d’appello, dopo aver escluso che i lastrici solari appartenessero per titoli contrattuali ad una delle parti, ha accolto la domanda di usucapione senza avere previamente accertato la natura condominiale o non degli immobili in contestazione, laddove il lastrico solare è compreso nel catalogo delle parti comuni del fabbricato, ai sensi dell’art. 1117 c.c., con conseguente presunzione di condominialità (ex plurimis, Cass. 23/08/2017, n. 20287).
Si tratta, infatti, di bene che svolge una funzione di utilità comune a tutti i condomini, in quanto assicura la copertura dell’edificio (cfr. Cass. Sez. U. 10/05/2016, n. 9449, del 10/05/2016).
Nondimeno, come chiaramente emerge dal regime delle spese di riparazione e ricostruzione previsto dall’art. 1126 c.c., è configurabile l’”uso esclusivo” del lastrico (o di parte di esso), al quale la giurisprudenza consolidata ha assimilato l’ipotesi in cui il lastrico solare sia di proprietà esclusiva. Si trova ripetutamente affermato che il lastrico solare, anche se attribuito in uso esclusivo o di proprietà esclusiva di uno dei condomini, svolge funzione di copertura del fabbricato e perciò l’obbligo di provvedere alla sua riparazione o ricostruzione, sempre che non derivi da fatto imputabile soltanto a detto condomino, grava su tutti i condomini, con ripartizione delle relative spese secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c. (ex plurimis, in ordine cronologico, Cass. 29/10/1992, n. 11774; Cass. Sez. U. 29/04/1997, n. 3672; Cass. 28/11/2001, n, 15131; Cass. 21/02/2006, n. 3676; Cass. 07/02/2017, n. 3239).
Una volta ammessa l’appartenenza esclusiva del lastrico, è consequenziale ammettere che la proprietà dello stesso possa essere acquistata per usucapione, dovendosi ritenere superata l’affermazione risalente, secondo cui il lastrico solare non sarebbe usucapibile perché concettualmente insopprimibili le utilità tratte dagli altri partecipi della comunione, per effetto della connaturata destinazione di copertura del fabbricato (Cass. 05/06/1968, n. 3544).
È vero, al contrario, che l’utilitas concettualmente insopprimibile – copertura dell’edificio – che tutti i condomini ricavano dal lastrico solare non costituisce una facoltà connessa al diritto di proprietà, esercitabile dal proprietario ovvero dal possessore o compossessore, trattandosi di utilità che si trae dal bene in sé, mentre sono altre le utilità, esse sì corrispondenti ad altrettante facoltà connesse alla proprietà e coincidenti con il godimento del bene, che possono rilevare ai fini dell’usucapione.
Come ripetutamente affermato da questa Corte, il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune deve provare di averla sottratta all’uso comune per il periodo utile all’usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituita da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà (ex plurimis, Cass. 02/03/1998, n, 2261; Cass. 23/07/2010, n. 17322; Cass. 09/06/2015, n. 11903; Cass. 19/10/2017, n. 24781).”
Una pronuncia ( Cass.civ. sez. II ord. 9 settembre 2019, n. 22442) che potrebbe essere fraintesa, poichè al termine sottoscala possono essere ricondotte situazioni fra loro assai eterogenee, da vano chiuso e dotato di propria autonomia funzionale a semplice area aperta posta sotto la rampa.
Appare quindi opportuno che, prima di applicare il principio di diritto richiamato dalla Corte, peraltro già oggetto di consolidato orientamento, si ponga debita attenzione alla natura, struttura e destinazione funzionale del vano di cui si discute.
“È pacifico che il sottoscala rientri tra le parti comuni dell’edificio condominiale, ex art. 1117 c.c., in quanto proiezione delle scale. Incombe, pertanto, a chi rivendichi l’acquisto uti singuli di detta porzione di immobili l’onere di provare che questa venne avocata a sé dal venditore col primo atto di frazionamento. Questa Corte, con orientamento consolidato al quale intende dare continuità, ha affermato che, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto.
Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni (Cassazione civile sez. II, 09/08/2018, n. 20693; Cass. Civ., n. 11812 del 2011; Cass. Civ., n. 13450 del 2016; Cass. Civ., n. 5831 del 2017).
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte e, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha accertato che G.L. aveva acquistato dalla SICE s.r.l., con atto del 14.10.1963 per notar T. , diversi locali terranei facenti parti del fabbricato in (OMISSIS) , con altro atto in pari data aveva acquistato alcuni quartini del medesimo fabbricato, nonché il locale garage, confinante – tra l’altro – con il locale in questione. Dall’esame dei titoli di proprietà e dalla CTU, riservata al giudice di merito, era emerso che la ditta costruttrice si era riservata la proprietà di alcuni sottoscala ma non di quello della scala X, ove era situato quello oggetto di lite, che era, pertanto di proprietà comune.
Ulteriore conferma della condominialità del bene veniva ravvisato nel contenuto del regolamento di condominio, che annoverava tra le proprietà esclusive della società costruttrice i box sottostanti al primo rampante delle scale (…) ma non della scala (…), che, doveva, pertanto ritenersi comune (pag.11-13 della sentenza impugnata). In assenza del titolo contrario idoneo a superare la condominialità del sottoscala, il giudice d’appello ha ritenuto che si trattasse di bene comune.”
La corte osserva come sia onere di colui che invoca l’acquisto di detto vano per usucapione provare rigorosamente sia il termine iniziale che il decorso del ventennio: “Incombe su chi invoca l’acquisto per usucapione o ne eccepisce l’acquisto, l’onere di provare sia il momento iniziale del possesso ad usucapionem, sia la decorrenza del ventennio. La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto in tema di onere della prova, ritenendo che fosse onere del G. provare l’inizio della decorrenza dell’usucapione, coincidente con l’inizio dei lavori per l’accorpamento del vano scala. Ha, quindi, ritenuto che, poiché i testi avevano genericamente fatto riferimento al periodo post-terremoto, fosse inverosimile che l’inizio dei lavori risalisse al 1980 e che nel 2000 il termine ad usucapire fosse decorso.”
Cass.Civ. sez.VI-2 15 gennaio 2019 n. 848 rel. Scarpa ritorna su un tema consolidato e che, tuttavia, nei Tribunali pare non essere ancora stato correttamente recepito: in sede di giudizio di appello, avverso una sentenza che ha accertato l’intervenuta usucapione di una parte comune in favore di un condomino, non viene citato uno dei partecipanti al condominio.
“Come da questa Corte più volte precisato, in tema di condominio negli edifici, qualora un condomino agisca per ottenere l’accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione in suo favore della proprietà esclusiva di una parte altrimenti rientrante nell’ambito di quelle comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c. (quale lo spazio sottostante il suolo dell’edificio condominiale: Cass. Sez. 2, 30/03/2016, n. 6154), il contraddittorio va esteso a tutti i condomini, incidendo la domanda sull’estensione dei diritti dei singoli; pertanto, ove ciò non avvenga, l’invalida costituzione del contraddittorio può, in difetto di giudicato espresso o implicito sul punto, essere eccepita per la prima volta o rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità (Cass., Sez. 6 – 2, 15/03/2017, n. 6649). Ne consegue che, nel caso di tempestiva impugnazione della sentenza di primo grado nei confronti di taluni soltanto di essi, il giudice d’appello deve disporre, a pena di nullità, l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c. nei confronti dei litisconsorti pretermessi. L’atto di appello di R.A. , diretto all’accoglimento della domanda di usucapione dell’area sottostante il suo appartamento, non venne invece rivolto, come risulta anche dalla relativa vocatio in ius e dalla richiesta di notificazione della citazione, nei confronti del condomino T.V. , che era stato parte del giudizio di primo grado. Né vale ad escludere il vizio di non integrità del contraddittorio l’erronea dichiarazione della contumacia di T.V. nell’epigrafe della sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila. L’impugnata sentenza va, quindi, cassata con rinvio alla Corte d’Appello di L’Aquila in diversa composizione, che provvederà a nuovo esame della causa previa integrazione del contraddittorio nei confronti del condomino pretermesso, e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.”
Una interessante sentenza della Corte di legittimità, resa da un finissimo estensore, (Cass.Civ. sez. 12 dicembre 2018 n. 32147 pres. Giusti rel. Scarpa) affronta un tema complesso e di grande rilievo : la vendita di beni usucapiti, il cui acquisto non sia stato cristallizzato in una pronuncia di accertamento.
Il trasferimento deve ritenersi consentito e lecito (mentre non lo è quello del mero possesso che ancora non abbia dato luogo a fattispecie acquisitiva), tuttavia al notaio che redige l’atto sono imposti ben precisi doveri di informazione dell’acquirente, sui rischi che un simile atto traslativo comporta.
La sentenza, che in realtà è di più ampio respiro rispetto al tema della trasferibilità del bene usucapito, traccia i confini degli obblighi notarili in sede di redazione di atti di trasferimento immobiliari e origina dal ricorso di un notaio palermitano, sanzionato dal proprio organo disciplinare per aver rogato 309 atti inserendo una mera clausola di stile del seguente tenore “Dichiara la parte venditrice (o donante) che il diritto di piena proprietà sull’immobile oggetto di quest’atto è pervenuto alla stessa per giusti e validi titoli ultraventennali”.
Osserva la corte che ” Al notaio Antonino P. è stato contestato in sede disciplinare, per quanto qui rilevi, l’addebito disciplinare derivante dalla violazione dell’art. 50, lett. b), del codice deontologico elaborato dal Consiglio nazionale del notariato, il quale, in tema di contenuto degli atti, per soddisfare le esigenze di chiarezza e di completezza, impone al notaio di curare che dal testo dell’atto normalmente risultino “le indicazioni necessarie per l’inquadramento dell’atto nella vicenda giuridico-temporale su cui opera (ad es.: titoli di provenienza e atti direttamente connessi; formalità pregiudizievoli; servitù; vincoli di disponibilità).
E’ stata contestata anche la violazione dell’art. 14, lettera b) del Codice deontologico, per aver rinunciato a richiedere la documentazione dovuta per legge o comunemente ritenuta necessaria (ad es. catastale, urbanistica) per il compiuto ricevimento dell’atto.
…
Il ricorrente invoca in suo favore il precedente giurisprudenziale costituito da Cass. Sez. 2, 05/02/2007, n. 2485, che in verità richiama anche l’ordinanza impugnata.
L’insegnamento contenuto in tale pronuncia non è però decisivo ai fini dell’accoglimento del primo motivo di ricorso.
La sentenza n. 2485 del 2007 dapprima escluse la nullità della vendita di un bene di cui l’alienante assuma essere diventato proprietario per usucapione, sia pur senza alcun preventivo accertamento giudiziale di tale acquisto della proprietà, distinguendo questo problema dalla diversa questione della possibilità che oggetto di una vendita possa essere il solo possesso, in quanto tale, di un immobile.
Non potrebbe logicamente sostenersi, ad avviso di Cass. n. 2485/2007, che chi abbia usucapito, pur essendo ormai proprietario, non sia legittimato a disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non sia accertato giudizialmente.
La stessa sentenza escluse altresì profili di responsabilità per negligenza professionale del notaio che, con riguardo ad una vendita di terreni dei quali l’alienante aveva assunto di aver acquistato la proprietà per usucapione, senza alcun accertamento giudiziale, non aveva comunque avvertito l’acquirente come l’acquisto potesse essere a rischio, visto che nell’atto era stata comunque espressamente inserita una clausola dal cui poteva desumersi che l’acquirente fosse non di meno consapevole di tale rischio (in quanto il venditore si era impegnato a rifondere all’acquirente tutti i danni che terzi potessero pretendere “in conseguenza della vendita imperfetta dei terreni”).
Il riconoscimento della validità del trasferimento dell’immobile usucapito, pur in assenza di un preventivo accertamento giudiziale (su cui si vedano già peraltro, Cass. Sez. 5, 07/08/2000, n. 10372; Cass. Sez. 1, 26/11/1999, n. 13184)/ assume sicura rilevanza con riguardo all’art. 28, n. 1, della legge notarile.
Rileva ancora la corte che “ Il notaio non è tenuto ad uno specifico controllo della legittimazione del disponente che si dichiari proprietario per usucapione, e può limitarsi a prendere atto che la volontà delle parti è espressamente diretta all’effetto traslativo, anche se lo stesso sia insicuro.
Poiché, tuttavia, il notaio ha un obbligo di informazione e di chiarimento nei confronti delle parti, anche ai fini della funzione di adeguamento nella compilazione prescritta dell’atto che gli affida l’art. 47, comma 2, legge notarile,egli dovrà accertarsi che il compratore abbia ben chiaro il rischio che assume con l’acquisto, per aver fondato l’alienante la sua proprietà sulla maturata usucapione non accertata giudizialmente. L’acquirente, adeguatamente informato, per una maggior sicurezza del suo acquisto, in assenza delle visure ipocatastali ventennali, può, allora, richiedere specifiche garanzie, oltre quelle ex artt. 1483 e 1484 c.c., oppure preventivare un congruo risarcimento nel caso di esito infelice della vendita (come, ad esempio, accertato nella fattispecie decisa da Cass n. 2485/2007), ed il notaio può procedere così alla stipula, riportando nell’atto i dati forniti dalle parti.
In particolare, deve ritenersi necessario che il notaio precisi nell’atto che il compratore è consapevole che l’acquisto dal preteso usucapiente possa essere a rischio, mediante apposita clausola del negozio stipulato tra le parti, da menzionare nel quadro “D” della nota di trascrizione, per segnalare altresì ai terzi la carenza della pubblica fede notarile con riguardo alla provenienza dell’immobile ed all’inesistenza di formalità pregiudizievoli.”
In tal senso, la Corte d’Appello di Palermo ha, all’opposto, accertato unicamente un sistematico inserimento (309 atti nel biennio 2001/2012) di una clausola che, di fatto, consentiva al notaio P. di non indicare i titoli di provenienza, nella quale la parte disponente dichiarava che “il diritto di piena proprietà sull’immobile” le fosse “pervenuto” (espressione che lascerebbe pensare ad un acquisto di carattere derivativo, piuttosto che originario) “per giusti e validi titoli ultraventennali”. Nessun riferimento espresso si faceva, dunque, all’acquisto per usucapione, ma, soprattutto, nessuna consapevolezza del rischio dell’acquisto veniva rivelata dal compratore, sicché l’esonero dalle visure ventennali appariva, piuttosto, conseguenza dell’iniziativa dello stesso notaio stipulante, e non effetto delle volontà concreta delle parti, il che rende configurabile il comportamento deontologicamente scorretto del professionista.”
“La prova rigorosa dell’inizio del possesso, dell’esercizio dello stesso e del decorso del tempo idoneo ad usucapire è preciso onere di chi intende far valere la fattispecie acquisitiva originaria e non potrà essere assolto ricorrendo a semplici deduzioni, supposizioni o presunzioni.”
Una aspra vicenda familiare consente al Tribunale apuano (Tribunale Massa 17 luglio 2018 n. 525) di affrontare l’onere probatorio che incombe a colui che rivendica l’acquisto per usucapione di un bene immobile: specie laddove – in ambito familiare – il godimento del bene inizi come mera detenzione, è onere di colui che ritiene di aver usucapito dare prova netta della avvenuta interversione e dell’inizio del potere di fatto sulla cosa che – unitamente al decorso del tempo – costituisce elemento cardine della fattispecie acquisitiva.
E’ quanto sottolinea Cass.Civ. sez. VI ord. 6 giugno 2018 n. 14622 rel. Scarpa, evidenziando come si tratti di facoltà connessa al diritto di proprietà e che – come tale – non subisce effetti pregiudizievoli dal mero decorso del tempo (salvo il sorgere di eventuali altri diritti per usucapione).
I fatti ed il processo: “B.A. aveva convenuto davanti al Tribunale di Roma il Condominio di via (omissis) , e L.m.P. , per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla propria unità immobiliare, con chiamata in garanzia operata dal Condominio nei confronti di C.G. e V.B. in forza di “clausola di manleva” contenuta nella scrittura del 14 ottobre 1986. In tale scrittura C.G. , la quale aveva eseguito opere di rimozione del tetto, si prendeva carico di tutte le riparazioni dovute al piano sottostante per eventuali cause di infiltrazioni. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 25334/2009, preso atto che erano state eseguite in corso di causa le opere necessarie a far cessare le infiltrazioni, dichiarò cessata la materia del contendere tra l’attrice B.A. , il Condominio e L.m.P. , mentre rigettò le domande di manleva proposta dal Condominio nei confronti di L.P. , C.G. e V.B.”
la corte di legittimità osserva che “La Corte d’Appello di Roma ha respinto la domanda di rimessione in pristino osservando che il decorso di vent’anni dalla dichiarazione di manleva dimostrasse “l’atteggiamento di tolleranza del Condominio che, evidentemente, ha fatto acquiescenza al mutamento dello stato dei luoghi contro l’assunzione di ogni possibile conseguenza negativa da parte degli esecutori dei lavori”.
Questo ragionamento contravviene al consolidato principio giurisprudenziale per cui l’azione, con la quale il condominio di un edificio chiede la rimozione di opere che un condominio abbia effettuato sulla cosa comune, oppure nella propria unità immobiliare, con danno alle parti comuni, in violazione degli artt. 1102, 1120 e 1122 c.c., ha natura reale, e, pertanto, giacché estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, non è suscettibile di prescrizione, in applicazione del principio per cui “in facultativis non datur praescriptio”.
L’imprescrittibilità, piuttosto, può essere superata dalla prova della usucapione del diritto a mantenere la situazione lesiva (arg. da Cass. Sez. 2, 07/06/2000, n. 7727; Cass. Sez. 2, 29/02/2012, n. 3123; Cass. Sez. 2, 16/03/1981, n. 1455; Cass. Sez. 2, 13/08/1985, n. 4427).
Vanno quindi accolti il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, mentre viene rigettato il primo e viene dichiarato assorbito il terzo motivo del ricorso principale. La sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che deciderà la causa uniformandosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti, e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.”
Il fenomeno acquisitivo delineato dagli art. 1158 e s.s. cod.civ., denominato usucapione, prevede che un soggetto che usi di fatto un bene come se fosse proprio e per un certo periodo di tempo, previsto dalla legge, ne diventi proprietario.
LA situazione di fatto corrispondete all’esercizio di un diritto è denominata possesso dal codice civile , ed è il fondamento – insieme al protrarsi di tale situazione per un tempo apprezzabile, dell’usucapione.
LA Suprema Corte ha sempre sottolineato che la situazione di fatto deve essere oggetto di valutazione decisamente rigorosa laddove l’usucapione riguardi beni condominiali, poiché il potere di fatto esercitato dal singolo condomino sul bene comune può non avere il carattere della assolutezza e individualità, ma essere semplice manifestazione di un esercizio riconducibile all’art. 1102 cod.civ.
Il condomino che pretenda di aver usucapito un bene comune dovrà dunque dimostrare di aver compiuto atti idonei ad escludere il compossesso degli altri condomini.
L’orientamento è confermato da una recente pronuncia (Cass.civ. sez. II 4 luglio 2017 n. 16414 rel. Giusti): “La Corte territoriale si è attenuta al principio di diritto, costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell’interessato attraverso un’attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che in-vochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass., Sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478; Cass., Sez. II, 20 maggio 2008, n. 12775; Cass., Sez. II, 2 settembre 2016, n. 17512).”
Ove l’amministratore proponga un0azione a tutela delle parti comuni contro un condomino e costui, in via riconvenzionale, opponga l’intervenuta usucapione del bene comune e ne chieda l’accertamento, deve necessariamente essere integrato il contraddittorio nei conforti degli altri condomini, non sussistendo legittimazione passiva dell’amministratore per la domanda relativa all’accertamento di diritti reali.
L’orientamento è consolidato e riaffermato da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 15 marzo 2017 n. 6649, Rel. Scarpa: “Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ove un condomino, convenuto dall’amministratore con azione di rilascio di uno spazio di proprietà comune, proponga (non un’eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, ma) una domanda riconvenzionale, ai sensi degli artt. 34 e 36 c.p.c., diretta a conseguire la dichiarazione di proprietà esclusiva del bene, viene meno la legittimazione passiva dell’amministratore rispetto alla controdomanda, dovendo la stessa, giacchè incidente sull’estensione del diritto dei singoli, svolgersi nei confronti di tutti i condomini, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico e inscindibile su cui deve statuire la richiesta pronuncia giudiziale. Nell’ipotesi in cui una siffatta domanda riconvenzionale venga proposta e decisa solo nei confronti dell’amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio può essere denunciata o essere rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità (arg. da Cass. 22/02/2013, n. 4624; Cass. 03/09/2012, n. 14765; Cass. 08/09/2009, n. 19385; Cass. 24/08/1991, n. 9092; arg. anche da Cass. Sez. U, 13/11/2013 n. 25454).”
Il sottotetto è da sempre vano con una travagliata identità: se il titolo nulla dispone, deve ritenersi pertinenza dell’unità immobiliare posta immediatamente aldisotto, ove la sua funzione sia limitata a mero vano tecnico (tendenzialmente impraticabile) volto all’isolamento dal tetto di quell’appartamento, mentre dovrà ritenersi condominiale se – per caratteristiche e funzioni – sia destinato ad assolvere ad una utilità comune.
Si tratta di un’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che la L. 220/2012 ha pedissequamente trasformato in (inutile) dato normativo, inserendo nell’art. 1117 cod.civ. l’espressione “i sottotetti destinati per le caratteristiche funzionali all’uso comune”, inciso che obbliga comunque il giudice ad un apprezzamento di fatto sulle oggettive caratteristiche funzionali di ciascun sottotetto.
Altro caposaldo giurisprudenziale riguarda il possesso idoneo ad usucapire, quando si eserciti su beni comuni: il godimento anche esclusivo da parte del singolo ben può essere espressione delle facoltà previste dall’art. 1102 cod.civ., sicché per usucapire è necessario un atto di interversione di particolare apprezzabilità, che trasformi con chiarezza il compossesso in possesso esclusivo.
La Suprema Corte distilla tali principi, con grande precisione, in una recente sentenza (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 2 marzo 2017, n. 5335- Relatore Scarpa) che conclude una vicenda iniziata in terra ligure, con qualche interessante e didattica riflessione anche sulla nascita del condominio.
i fatti e il processo di merito “B.S. ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi avverso la sentenza n. 1170/2012 del 21 novembre 2012 della Corte d’Appello di Genova, che aveva rigettato l’appello proposto dalla stessa B.S. avverso la sentenza n. 4189/2005 del Tribunale di Genova ed invece accolto l’appello incidentale proposto dal CONDOMINIO (omissis) , ordinando alla B. di liberare le intercapedini perimetrali del sottotetto condominiale dalle masserizie ivi collocate. La causa era iniziata con citazione del 26 gennaio 1997 proposta dalla condomina Ca.Ol. (della quale B.S. è erede costituitasi in corso di giudizio) per impugnazione della deliberazione assembleare del 18 dicembre 1996, che invitava la signora Ca. a non utilizzare dette intercapedini perimetrali a livello del suo appartamento, in quanto di proprietà comune. Avendo l’attrice proposto altresì domanda di usucapione di tali locali, venivano chiamati in giudizio anche i condomini dell’edificio D.M.G. , C.A. , CE.LU. , R.P. , A.N. , I.G. , CI.MA. e D.F.E. “
in diritto la Corte di legittimità osserva che …“La Corte d’Appello di Genova ha affermato che la proprietà condominiale dei sottotetti si ricava dal “titolo pre-costitutivo del condominio a rogito not. S. in data 19.08.53, col quale tutti i soggetti interessati alla costruzione dell’edificio acquistarono pro quota l’area edificabile in vista della futura edificazione del caseggiato. L’atto conteneva già l’identificazione e la descrizione degli appartamenti che per effetto della descrizione del caseggiato sarebbero diventati di proprietà dei singoli condomini”. Alla condomina M.A. era attribuita la proprietà dell’appartamento interno 7 (poi divenuto di proprietà Ca. ), i cui confini venivano descritti come “porzioni condominiali del sottotetto e muretto attico sui terrazzini”.
IL MOMENTO IN CUI SORGE IL CONDOMINIO: “Per unanime interpretazione giurisprudenziale, in ipotesi di edificio costruito da una sola persona, la situazione di condominio edilizio si ha per costituita nel momento stesso in cui l’originario unico proprietario ne operi il frazionamento, alienando ad un terzo la prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione. Se, invece, si tratti, come nel caso in esame, di edificio costruito da più soggetti su suolo comune, il condominio insorge al momento in cui avviene l’assegnazione in proprietà esclusiva dei singoli appartamenti. Spetta, invero, al giudice del merito stabilire, in base al contenuto della convenzione ed all’interpretazione della volontà dei contraenti, se i comproprietari pro indiviso di un suolo, i quali stabiliscano di costruirvi un fabbricato condominiale, per conseguire la proprietà esclusiva dei singoli appartamenti senza necessità di porre in essere, a costruzione ultimata, ulteriori atti traslativi o dichiarativi, abbiano stipulato un negozio di divisione di cosa futura, ovvero una reciproca concessione ad aedificandum (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 102 del 15/01/1990; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4868 del 15/07/1983). Costituitosi, in ogni caso, il condominio, per effetto dell’assegnazione delle singole porzioni, insorge altresì la presunzione legale di comunione “pro indiviso” di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano, in tale momento, destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal titolo non risulti, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014; Sez. 2, Sentenza n. 16292 del 19/11/2002).
IL SOTTOTETTO: Sono quindi oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con modifica, in parte qua, di natura interpretativa, dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune (già così, peraltro, indipendentemente dall’integrazione dell’art. 1117 c.c. nel richiamato senso, disposta dalla Riforma del 2012: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23902 del 23/11/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6143 del 30/03/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8968 del 20/06/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7764 del 20/07/1999). Altrimenti, ove non sia evincibile il collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà supposto dall’art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la destinazione all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, giacché lo stesso sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento.La proprietà del sottotetto si determina, dunque, prioritariamente in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto. La Corte d’Appello di Genova si è attenuta a tali principi e, poiché l’indagine diretta a stabilire, attraverso l’interpretazione dei titoli d’acquisto, se sia o meno applicabile la presunzione di comproprietà ex art. 1117 c.c., costituisce un apprezzamento di fatto, essa non è censurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di un fatto storico decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, conv. in legge n. 134/2012 (applicabile nella specie ratione temporis). Non può certamente rilevare, ai fini dell’interpretazione del contenuto del contratto e del suo programma obbligatorio (la quale consiste in apprezzamento tipico del giudice di merito volto a ricostruire l’intenzione delle parti), la qualificazione giuridica degli elementi dell’accordo che abbia raggiunto il consulente tecnico d’ufficio, trattandosi di accertamento che esula dai compiti delegabili all’ausiliare.
IL POSSESSO DI PARTI COMUNI E L’USUCAPIONE: “Quanto al terzo motivo di ricorso, riguardante la pretesa della ricorrente di aver usucapito le soffitte in contesa, la Corte di Genova ha negato che vi fosse prova di condotte di possesso esclusivo dei beni, a tanto non valendo la mera occupazione dei locali con vari oggetti. La censura lamenta la mancata considerazione del fatto che l’accesso ai vani per cui è causa possa avvenire soltanto attraverso l’appartamento della stessa ricorrente, sicché non v’era ragione di escludere gli altri dal possesso. La doglianza è infondata, atteso che il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei comproprietari, in ragione della peculiare ubicazione del bene e delle possibilità di accesso ad esso, non è comunque, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso “ad usucapionem”, essendo, per converso, comunque necessaria, a fini di usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla “res” da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19478 del 20/09/2007) La valutazione degli atti di possesso, agli effetti indicati, è peraltro rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, sempre al di fuori dei limiti attualmente segnati dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”
Il codice civile, all’art. 1140, individua con precisione la nozione di possesso : “il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale”.
A quella situazione di fatto, modellata ad immagine di un diritto, la legge ricollega conseguenze giuridiche connesse al decorso del tempo, note con il nome di usucapione: ove quel potere si protragga per oltre venti anni (nei casi ordinari) il possessore acquista a titolo originario il corrispondente diritto. (art. 1158 cod.civ. “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”)
Colui che usa come se fosse proprio un bene altrui, nel disinteresse del titolare, ne diventa effettivamente proprietario dopo venti anni di possesso ininterrotto.
Il periodo di venti anni può anche essere calcolato su più situazioni soggettive, laddove inizi in capo ad alcuni soggetti e prosegua in capo ad altri, sicché l’ultimo dei possessori può giovarsi – in alcuni casi – del periodo di possesso esercitato dai suoi danti causa, sommandolo al proprio: prevede l’art. 1146 cod.civ. che “Il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione. Il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti”
La prima ipotesi è definita successione nel possesso (ad esempio alla morte del padre i figli continuano a godere del bene), la seconda è definita accessione nel possesso (il soggetto che esercita il potere di fatto sulla cosa cede ad altri il bene su cui quel potere si esercita trasferendogli il possesso).
La Cassazione ha avuto di recente occasione di chiarire – ribadendo orientamenti consolidati – i limiti e le modalità con cui passa darsi luogo ad accessione: non è sufficiente la trasmissione del mero potere di fatto sulla cosa fra due soggetti ma ciò deve avvenire in forza di un titolo astrattamente idoneo a trasferire anche il diritto ad immagine del quale quel possesso si esercita.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, 30 gennaio 2017, n. 2295 Relatore Scalisi: Secondo il costante orientamento di questa Corte, in tema di accessione nel possesso, di cui all’art. 1146 c.c., comma 2, affinché operi il trapasso del possesso dall’uno all’altro dei successivi possessori e il successore a titolo particolare possa unire al proprio, il possesso del dante causa, è necessario che il trasferimento trovi la propria giustificazione in un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale sul bene; dal che consegue, stante la tipicità dei negozi traslativi reali, che l’oggetto del trasferimento non può essere costituito dal trasferimento del mero potere di fatto sulla cosa (Cass. 16-3-2010 n. 6353; Cass. 22-4-2005 n. 8502). L’accessione del possesso, di cui all’art. 1146 c.c., comma 2, pertanto, opera con riferimento e nei limiti del titolo traslativo (e non oltre lo stesso), e in tali limiti può avvenire la “traditio”: all’acquisto deve, infatti, seguire l’immissione di fatto nel possesso del bene con il passaggio del potere di agire liberamente sullo stesso, e da tale momento si verificano gli effetti dell’accessione (Cass. 12-9-2000 n. 12034; Cass. 23-6-1999 n.6382; Cass. 3-7-1998 n.6489; Cass. 12-11-1996 n.9884). Questa Corte ha, altresì, avuto modo di chiarire che, nell’azione di regolamento di confini, qualora il convenuto eccepisca l’intervenuta usucapione invocando l’accessione del possesso, deve fornire la prova dell’avvenuta “traditio” in virtù di un contratto, comunque, volto (pur se invalido e proveniente “a non domino”) a trasferire la proprietà del bene oggetto del possesso (Cass. 12-9-2000 n. 12034).